L’ISTITUTO DEL WHISTLEBLOWER A TRE ANNI DALLA LEGGE ANTICORRUZIONE
La tutela del dipendente che segnala condotte illecite (cd. whistleblowing), ampiamente in uso nei sistemi di Common Law nonché ripresa dalle convenzione internazionali contro la corruzione, è stata introdotta nel pubblico impiego italiano con la legge anticorruzione n. 190/2012. Questa forma di tutela opera su tre versanti: il divieto di discriminazione nei confronti del segnalante, la tendenziale tutela dell’anonimato e la sottrazione di tale tipo di denuncia dal diritto di accesso. Problematici rimangono, peraltro alcuni profili inerenti i limiti della tutela del whistleblower, elementi – accanto all’asssenza di misure incentivanti per il dipendente e al ritardo delle amministrazioni nel predisporre concrete misure di attuazione della garanzia di anonimato – che hanno finora mortificato un potenziale strumento per aumentare la capacità di scoprire casi di corruzione/malamministrazione. Sul punto è in corso una iniziativa legislativa (ddl S2208), che ha già passato un primo vaglio alla Camera.
Sommario: 1. Dalla soffiata al whistleblowing. – 2. Il whistleblower nel Codice di comportamento dei dipendenti pubblici e nel Piano Nazionale Anticorruzione. – 3. La determinazione ANAC n. 6/2015. – 4. Conclusioni.
1. Dalla soffiata al whistleblowing
È con l’art. 1, comma 51, della legge 6 novembre 2012, n. 190 che ha fatto ingresso nel nostro ordinamento – nell’ambito del pubblico impiego - la figura del cd. whistleblower. L’istituto, ampiamente diffuso a livello internazionale, è risultato inedito in Italia, tanto da aver reso da subito necessario il richiamo alla terminologia anglosassone e alle elaborazioni estere per scolpirne le peculiarità ed evidenziare le più immediate fonti d’origine[1]. Quest’ultime da rinvenirsi nelle convenzioni in tema di lotta alla corruzione promosse da ONU, OCSE e Consiglio d’Europa e ratificate anche dall’Italia[2].
Si tratta di una disciplina che introduce una specifica misura di tutela, finalizzata a consentire l’emersione dei fenomeni di corruzione e malamministrazione. La ratio è di evitare che il dipendente ometta di effettuare segnalazioni di illeciti di cui abbia avuto conoscenza per il timore di subire conseguenze pregiudizievoli. L’inglese whistleblowing indica, infatti, l’atto di “soffiare il fischietto” per richiamare l’attenzione e whistleblower è chi compie tale segnalazione (termine talvolta tradotto nell’italiano “vedetta civica”)[3].
Tornando alla citata disposizione della legge anticorruzione del 2012, essa inserisce nel corpo del d.lgs. n. 165/2001 un nuovo articolo 54-bis, rubricato Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti, il whistleblower, appunto.
Il primo comma statuisce che: “fuori dei casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile, il pubblico dipendente che denuncia all’autorità giudiziaria o alla Corte dei conti, o all’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia”.
La menzione dell’ANAC tra i destinatari della denuncia del dipendente pubblico era, peraltro, assente nell’originaria formulazione. Essa è frutto della novella recata dal d.l. 24 giugno 2014, n. 90, nel quadro del complessivo ridisegno delle funzioni dell’Autorità nazionale anticorruzione[4].
Nei successivi commi, l’art. 54 -bis disciplina:
– il tendenziale divieto di rivelare il nome del segnalante nell’ambito del procedimento disciplinare instaurato nei confronti del segnalato;
– il controllo del Dipartimento della funzione pubblica su eventuali misure discriminatorie;
– la sottrazione delle denunce del whistleblower dal diritto di accesso di cui alla legge n. 241/1990.
Il legislatore specifica che il divieto di rivelare l’identità del segnalante, senza il suo consenso, trova applicazione “sempre che la contestazione dell’addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione”. Quest’ultima agisce, così, da mera fonte di innesco. Laddove, invece, “la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione, l’identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell’incolpato” (comma 2).
Come accennato, l’art. 54 bis -presuppone l’identificazione del soggetto (pubblico dipendente) segnalante[5], da tutelare con strumenti atti a garantire la riservatezza della fonte. Come puntualizzato dall’ANAC, “l’anonimato del dipendente che ha segnalato condotte illecite, ai sensi dell’art. 54 bis del d.lgs. n. 165/2001, deve essere tutelato anche nei confronti dell’organo di vertice dell’amministrazione”[6]. D’altra parte, la protezione accordata riguarda ritorsioni che possono avere luogo nell’ambito del rapporto di lavoro pubblico e non anche quelle di altro tipo.
Ciò sgombra il campo di operatività dell’istituto rispetto ad altre tipologie di segnalazioni, come quelle provenienti da cittadini o imprese ovvero le segnalazioni anonime.
Riguardo, ancora, l’ambito di applicazione della norma, risultando l’art. 54 bis inserito nel d.lgs. 165/2001; è alle amministrazioni destinatarie delle Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche che occorre fare riferimento, così come individuate dall’art. 1, comma 2 dello stesso decreto 165. Ciò è espressamente confermato anche dall’art. 1, comma 59, della legge n. 190/2012. La tutela riguarda tanto i dipendenti contrattualizzati quanto i dipendenti in regime di diritto pubblico (cfr. l’art. 3 del decreto 165/2001), compatibilmente con la peculiarità dei rispettivi ordinamenti
Le condotte illecite segnalate devono riguardare situazioni di cui il soggetto sia venuto direttamente a conoscenza «in ragione del rapporto di lavoro». Ciò in virtù dell’ufficio rivestito o in occasione e/o a causa dello svolgimento delle mansioni lavorative, seppure in modo accidentale. Rimangono, pertanto, al di fuori della sfera di operatività della disposizione in commento le informazioni di scienza squisitamente privata, perché acquisite al di fuori di ogni legame con il mondo lavorativo.
Resta ferma, poi, la distinta disciplina penalistica relativa ai pubblici ufficiali e agli incaricati di pubblico servizio che, in presenza di specifici presupposti, sono gravati da un vero e proprio obbligo di denunciare, senza ritardo, all’Autorità giudiziaria i fatti di reato (anche, ma non solo, fatti penalmente rilevanti di corruzione). Ciò in virtù di quanto previsto dal combinato disposto dell’art. 331 del codice di procedura penale e degli artt. 361 e 362 del codice penale. Facile osservare come la disposizione recata dall’art. 54-bis si differenzia per l’ambito soggettivo e oggettivo più ampio - segnalazione di “condotte illecite” da parte di tutti i pubblico dipendenti - e per essere principalmente rivolta a definire il regime di tutela dei segnalanti. Le norme penalistiche, invece, prendono in esame solo fatti costituenti reato e si applicano esclusivamente a coloro che rivestono la qualifica di “pubblico ufficiale”, di cui all’articolo 357 c.p. o di “incaricato di pubblico servizio”, di cui al successivo articolo 358, senza un riferimento generico alla figura del pubblico dipendente[7].
La precisazione dell’oggetto della segnalazione rinvia, invece, alla definizione del concetto stesso di corruzione.
Le condotte illecite oggetto delle segnalazioni meritevoli di tutela comprendono, infatti, non solo l’intera gamma dei delitti contro la pubblica amministrazione di cui al Titolo II, Capo I, del codice penale, ma anche le situazioni in cui, nel corso dell’attività amministrativa, si riscontri l’abuso da parte di un soggetto del potere a lui affidato al fine di ottenere vantaggi privati, nonché i fatti in cui – a prescindere dalla rilevanza penale – venga in evidenza un mal funzionamento dell’amministrazione a causa dell’uso a fini privati delle funzioni attribuite, ivi compreso l’inquinamento dell’azione amministrativa ab externo. Sono queste le indicazioni contenute sia nella circolare del Dipartimento della funzione pubblica n. 1/2013 che nell’attuale Piano nazionale anticorruzione. Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, ai casi di sprechi, nepotismo, demansionamenti, ripetuto mancato rispetto dei tempi procedimentali, assunzioni non trasparenti, irregolarità contabili, false dichiarazioni, violazione delle norme ambientali e di sicurezza sul lavoro.
La legge non prevede, comunque, “specifiche sanzioni a carico di coloro che perseguono i denuncianti. Ne´ il legislatore ha voluto introdurre misure premiali a vantaggio di questi ultimi, sul modello di altri ordinamenti. Questa proposta, evidentemente troppo distante dalle tradizioni del nostro ordinamento, non è neanche stata discussa al livello politico. È ovviamente una scelta legittima, ma non immune dall’idealismo”, che induce spesso il legislatore italiano “a preferire il meglio impossibile al bene possibile”[8].
Passando ad un ulteriore profilo, non è necessario che il dipendente sia certo dell’effettivo avvenimento dei fatti denunciati e dell’autore degli stessi; è sufficiente che il segnalante ritenga in base alle proprie conoscenze, altamente probabile che si sia verificato un fatto illecito (circostanziando per quanto possibile). È però da ritenersi che la conoscenza delle situazioni oggetto di segnalazione debba essere quantomeno diretta e personale.
La tutela prevista dall’art. 54-bis in commento trova applicazione quando il comportamento del pubblico dipendente che segnala non integri un’ipotesi di reato di calunnia o diffamazione ovvero sia in buona fede, da intendersi come mancanza da parte sua della volontà di esporre quello che, nelle fonti internazionali, viene definito un “malicious report”, ossia una iniziativa in malafede[9].
Al riguardo, si è segnalato che “siccome qualunque colpa, non solo quella grave, facoltizza, ex art. 2043 c.c., la richiesta risarcitoria, la norma potrebbe rischiare di garantire in modo molto limitato il segnalante, il quale potrebbe trovarsi esposto a conseguenze negative per il proprio comportamento collaborativo anche in presenza di una colpa lieve, per non aver, ad esempio, valutato fino in fondo la valenza di tutti gli elementi a sua conoscenza. La norma, per una vera eterogenesi dei fini, avrebbe l’effetto di deprimere gli apporti collaborativi dei dipendenti pubblici. Anche tenendo presente questa considerazione, si propone un interpretazione conforme alle norme internazionali (e in particolare alla Convenzione di Strasburgo) ..la tutela del whistleblower viene lì ricollegata ad un suo comportamento di buona fede, concetto quest’ultimo intepretato in modo più ampio di assenza di colpa, ma come mancanza da parte sua di volontà di esporre un malicious report. In questa prospettiva, quindi, si potrebbe ipotizzare che solo il dolo o la colpa grave del segnalante siano idonee a far venir meno la sua tutelabilità”[10].
2. Il whistleblower nel Codice di comportamento dei dipendenti pubblici e nel Piano Nazionale Anticorruzione
Il “soffio” del whistleblowing spira anche sul Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, che reca alcuni richiami al nuovo art. 54- bis del decreto 165.
In primo luogo va rilevato che l’art. 8 del d.P.R. 16 aprile 2013, n. 62 (rubricato Prevenzione della corruzione), nello specificare l’obbligo del dipendente di rispettare le misure necessarie alla prevenzione degli illeciti nell’amministrazione, prescrive - fermo restando l’obbligo di denuncia all’autorità giudiziaria - di segnalare “al proprio superiore gerarchico eventuali situazioni di illecito nell’amministrazione di cui sia venuto a conoscenza”. Ciò rientra, quindi, nella definizione dei doveri minimi di diligenza, lealtà, imparzialità e buona condotta che i pubblici dipendenti sono tenuti ad osservare.
Nell’art 13 del Codice (dedicato alle Disposizioni particolari per i dirigenti), il comma 8, dopo aver previsto che il dirigente intraprende con tempestività le iniziative necessarie ove venga a conoscenza di un illecito, specifica anche: “nel caso in cui riceva segnalazione di un illecito da parte di un dipendente, adotta ogni cautela di legge affinché sia tutelato il segnalante e non sia indebitamente rilevata la sua identità nel procedimento disciplinare, ai sensi dell’articolo 54-bis del decreto legislativo n. 165 del 2001”.
Infine, l’art. 15 del Codice (Vigilanza, monitoraggio e attività formative) attribuisce all’ufficio procedimenti disciplinari la cura della “raccolta delle condotte illecite accertate e sanzionate, assicurando le garanzie di cui all’articolo 54-bis del decreto legislativo n. 165 del 2001”.
Da parte sua, il primo Piano nazionale anticorruzione (PNA approvato con delibera Civit – Autorità Nazionale Anticorruzione n. 72/2013), al § 3.1.11, riconduce espressamente la tutela del dipendente che segnala condotte illecite tra le azioni e le misure generali finalizzate alla prevenzione della corruzione, in particolare fra quelle obbligatorie in quanto disciplinate direttamente dalla legge che, quindi, le amministrazioni pubbliche devono porre in essere ed attuare. Nello specifico, il Piano prevede che le pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001 siano tenute ad adottare, nell’ambito del Piano triennale di prevenzione della corruzione (PTPC), i necessari accorgimenti tecnici per dare, con tempestività, attuazione alla tutela del dipendente che effettua le segnalazioni di cui all’art. 54-bis in esame.
La tutela avviene, in particolare, attraverso l’introduzione di obblighi di riservatezza nei Piani triennali di prevenzione della corruzione delle singole amministrazioni, a carico di tutti coloro che ricevono o vengono a conoscenza della segnalazione e di coloro che successivamente venissero coinvolti nel processo di gestione della segnalazione, salve le comunicazioni che per legge o in base al PNA debbono essere effettuate. Ciò con l’accompagnamento di azioni di sensibilizzazione, comunicazione e formazione, nei confronti dei dipendenti, sui diritti e gli obblighi relativi alla divulgazione delle azioni illecite.
Per il PNA “ciascuna amministrazione deve prevedere al proprio interno canali differenziati e riservati per ricevere le segnalazioni la cui gestione deve essere affidata a un ristrettissimo nucleo di persone. Inoltre, occorre prevedere codici sostitutivi dei dati identificativi del denunciante e predisporre modelli per ricevere le informazioni ritenute utili per individuare gli autori della condotta illecita e le circostanze del fatto”.
La tutela deve essere idonea a proteggere anche i dipendenti che segnalano casi sospetti di corruzione internazionale (art. 322 bis c.p.)[11].
L’Allegato 1 al PNA (Soggetti, azioni e misure finalizzati alla prevenzione della corruzione), invece, si sofferma sul divieto di discriminazione nei confronti del whistleblower.
Esso definisce le misure discriminatorie come “le azioni disciplinari ingiustificate, le molestie sul luogo di lavoro ed ogni altra forma di ritorsione che determini condizioni di lavoro intollerabili. La tutela prevista dalla norma è circoscritta all’ambito della pubblica amministrazione; infatti, il segnalante e il denunciato sono entrambi pubblici dipendenti”.
Il dipendente che ritiene di aver subito una discriminazione per il fatto di aver effettuato una segnalazione di illecito:
– deve dare “notizia circostanziata dell’avvenuta discriminazione:
– al responsabile della prevenzione; il responsabile valuta la sussistenza degli elementi per effettuare la segnalazione di quanto accaduto;
– al dirigente sovraordinato del dipendente che ha operato la discriminazione; il dirigente valuta tempestivamente l’opportunità/necessità di adottare atti o provvedimenti per ripristinare la situazione e/o per rimediare agli effetti negativi della discriminazione in via amministrativa e la sussistenza degli estremi per avviare il procedimento disciplinare nei confronti del dipendente che ha operato la discriminazione;
– all’U.P.D.; l’U.P.D., per i procedimenti di propria competenza, valuta la sussistenza degli estremi per avviare il procedimento disciplinare nei confronti del dipendente che ha operato la discriminazione;
– all’Ufficio del contenzioso dell’amministrazione; l’Ufficio del contenzioso valuta la sussistenza degli estremi per esercitare in giudizio l’azione di risarcimento per lesione dell’immagine della pubblica amministrazione;
– all’Ispettorato della funzione pubblica; l’Ispettorato della funzione pubblica valuta la necessità di avviare un’ispezione al fine di acquisire ulteriori elementi per le successive determinazioni.
– può dare notizia dell’avvenuta discriminazione all’organizzazione sindacale alla quale aderisce o ad una delle organizzazioni sindacali rappresentative nel comparto presenti nell’amministrazione; l’organizzazione sindacale deve riferire della situazione di discriminazione all’Ispettorato della funzione pubblica se la segnalazione non è stata effettuata dal responsabile della prevenzione;
– può dare notizia dell’avvenuta discriminazione al Comitato Unico di Garanzia (C.U.G.); il presidente del C.U.G. deve riferire della situazione di discriminazione all’Ispettorato della funzione pubblica se la segnalazione non è stata effettuata dal responsabile della prevenzione;
– può agire in giudizio nei confronti del dipendente che ha operato la discriminazione e dell’amministrazione per ottenere:
– un provvedimento giudiziale d’urgenza finalizzato alla cessazione della misura discriminatoria e/o al ripristino immediato della situazione precedente;
– l’annullamento davanti al T.A.R. dell’eventuale provvedimento amministrativo illegittimo e/o, se del caso, la sua disapplicazione da parte del Tribunale del lavoro e la condanna nel merito per le controversie in cui è parte il personale contrattualizzato;
– il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale conseguente alla discriminazione”.
Nell’Aggiornamento 2015 al Piano Nazionale Anticorruzione (Determinazione n. 12 del 28 ottobre 2015), L’ANAC ha ritenuto utile sottolineare che – nell’ambito del processo di gestione del rischio corruzione – le amministrazioni possono fare riferimento e non sottovalutare le “segnalazioni pervenute, nel cui ambito rientrano certamente quelle ricevute tramite apposite procedure di whistleblowing”. Ciò per comprendere meglio le cause e il livello di rischio in atto.
3. La determinazione ANAC n. 6/2015
La Determinazione ANAC n. 6 del 28 aprile 2015 reca le Linee guida in materia di tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti.
Essa si apre, significativamente, con la considerazione che la disciplina dell’art. 54 -bis del d.lgs. n. 165/2001 “delinea esclusivamente una protezione generale e astratta”, che, per più versi, “deve essere completata con concrete misure di tutela del dipendente, il quale - per effettuare la propria segnalazione - deve poter fare affidamento su una protezione effettiva ed efficace che gli eviti una esposizione a misure discriminatorie. Questa tutela è, poi, nell’interesse oggettivo dell’ordinamento, funzionale all’emersione dei fenomeni di corruzione e di mala gestio”. La tutela deve essere fornita “da parte di tutti i soggetti che ricevono le segnalazioni: in primo luogo da parte dell’amministrazione di appartenenza del segnalante, in secondo luogo da parte delle altre autorità che, attraverso la segnalazione, possono attivare i propri poteri di accertamento e sanzione, ovvero l’Autorità nazionale anticorruzione (A.N.AC.), l’Autorità giudiziaria e la Corte dei conti”.
Sotto questo profilo, le Linee guida sono espressione di un generale potere di regolazione dell’ANAC in ordine alla tutela del dipendente pubblico che segnala condotte illecite, potere che si inquadra in quello di indirizzo sulle misure di prevenzione della corruzione nei confronti di tutte le pubbliche amministrazioni e degli enti privati controllati, partecipati, regolati o finanziati dallo Stato (ai sensi dell’art. 19, comma 15, del d.l. n. 90/2014)[12]. Con la Determinazione n. 6/2015 l’ANAC si prefigge, quindi, di fornire – con un atto di regolazione di portata generale - indicazioni in ordine alle misure che le pubbliche amministrazioni devono approntare per tutelare la riservatezza dell’identità dei whistleblower e, dall’altro, di dar conto delle procedure sviluppate dalla stessa ANAC per la tutela della riservatezza dell’identità sia dei dipendenti delle altre amministrazioni che trasmettano all’Autorità una segnalazione, sia dei propri dipendenti che segnalano condotte illecite.
Viene così, proposto “un modello procedurale per la gestione delle segnalazioni che tiene conto dell’esigenza di tutelare la riservatezza del dipendente che le invia. Ogni amministrazione, alla luce dei predetti principi, potrà adattare il modello proposto sulla base delle proprie esigenze organizzative”.
Tra le questioni affrontate nell’atto in esame, l’inapplicabilità della tutela del whistleblower nei casi in cui la segnalazione riporti informazioni false rese con dolo o colpa.
L’art. 54 -bis – osserva l’ANAC – è lacunoso “in merito all’individuazione del momento in cui cessa la garanzia della tutela che deve essere accordata. Vi è, infatti, un generico riferimento alle responsabilità penali per calunnia o diffamazione o a quella civile extracontrattuale, il che presuppone che tali responsabilità vengano accertate in sede giudiziale. La cessazione della tutela dovrebbe discendere, dunque, dall’accertamento delle responsabilità in sede penale (per calunnia o diffamazione) o civile (per responsabilità ex art. 2043 del codice civile) e, quindi, sembrerebbe necessaria una pronuncia giudiziale”. Consapevole della lacuna normativa, “tenuto conto della delicatezza della questione e della necessità di fornire indicazioni interpretative per consentire l’applicazione della norma, l’Autorità ritiene che solo in presenza di una sentenza di primo grado sfavorevole al segnalante cessino le condizioni di tutela dello stesso”.
Seconda problematica interpretativa esaminata è quella della garanzia della riservatezza dell’identità del segnalante nell’ambito dell’eventuale procedimento disciplinare avviato nei confronti del segnalato (art. 54-bis, comma 2). La legge dispone, infatti, che quando la contestazione che ha dato origine al procedimento disciplinare si basa unicamente sulla denuncia del dipendente pubblico, chi è sottoposto al procedimento disciplinare può accedere al nominativo del segnalante, anche in assenza del consenso di quest’ultimo, solo se ciò sia “assolutamente indispensabile” per la propria difesa. Al riguardo, l’ANAC è consapevole che “l’individuazione dei presupposti che fanno venir meno la riservatezza dell’identità del segnalante è cruciale in quanto, da una parte, la garanzia di riservatezza è una delle condizioni che incoraggiano il dipendente pubblico ad esporsi segnalando fenomeni di illiceità; dall’altra, consente alle amministrazioni di dare corretta applicazione all’istituto. La norma non fornisce indicazioni in merito. Vista la rilevanza della problematica, sulla quale sarebbe necessario un intervento chiarificatore del legislatore, l’Autorità ritiene che spetti al responsabile dell’ufficio procedimenti disciplinari valutare, su richiesta dell’interessato, se ricorra la condizione di assoluta indispensabilità della conoscenza del nominativo del segnalante ai fini della difesa. In ogni caso, sia in ipotesi di accoglimento dell’istanza, sia nel caso di diniego, il responsabile dell’ufficio procedimenti disciplinari deve adeguatamente motivare la scelta come peraltro previsto dalla legge 241/1990”. Si aggiunge che “è opportuno, comunque, che il responsabile dell’ufficio procedimenti disciplinari venga a conoscenza del nominativo del segnalante solamente quando il soggetto interessato chieda sia resa nota l’identità dello stesso per la sua difesa. Gravano sul responsabile dell’ufficio procedimenti disciplinari gli stessi doveri di comportamento, volti alla tutela della riservatezza del segnalante, cui sono tenuti il Responsabile della prevenzione della corruzione e gli eventuali componenti del gruppo di supporto”.
Terzo profilo di interesse evidenziato dalla Determinazione n. 6/2015 è il flusso di gestione delle segnalazioni. Ritiene, infatti, l’ANAC che esso debba avviarsi con l’invio della segnalazione al Responsabile della prevenzione della corruzione dell’amministrazione[13]. L’art. 54 –bis, invero, “indica che, qualora il segnalante non effettui una denuncia all’autorità giudiziaria, alla Corte del conti o all’A.N.AC., «riferisca al proprio superiore gerarchico». Ad avviso dell’Autorità, nell’interpretare il disposto normativo si deve tener conto anzitutto del fatto che, a livello amministrativo, il sistema di prevenzione della corruzione disciplinato nella legge 190/2012 fa perno sul Responsabile della prevenzione della corruzione a cui è affidato il delicato e importante compito di proporre strumenti e misure per contrastare fenomeni corruttivi. Egli è, dunque, da considerare anche il soggetto funzionalmente competente a conoscere di eventuali fatti illeciti al fine di predisporre, di conseguenza, le misure volte a rafforzare il Piano di prevenzione della corruzione, pena, peraltro, l’attivazione di specifiche forme di responsabilità nei suoi confronti. Occorre, in secondo luogo, tener conto che in amministrazioni con organizzazioni complesse gli uffici e i relativi livelli gerarchici sono molteplici con le conseguenti criticità organizzative nella realizzazione di un efficace sistema di tutela dell’identità dei segnalanti. Avuto riguardo alla ratio della norma, al ruolo e alle responsabilità del Responsabile della prevenzione della corruzione e alla necessità di non gravare le amministrazioni con eccessivi vincoli organizzativi, in attesa di un intervento legislativo in tal senso, l’Autorità ritiene altamente auspicabile che le amministrazioni e gli enti prevedano che le segnalazioni vengano inviate direttamente al Responsabile della prevenzione della corruzione. Qualora le segnalazioni riguardino il Responsabile della prevenzione della corruzione gli interessati possono inviare le stesse direttamente all’A.N.AC.”[14].
In ogni caso, il Responsabile, anche in relazione all’organizzazione interna dell’amministrazione, potrà avvalersi di un gruppo di lavoro dedicato, di cui, però, non possono far parte i componenti dell’ufficio procedimenti disciplinari. L’assenza nella normativa di riferimenti al predetto ufficio va interpretata come volta a valorizzare il ruolo di terzietà dello stesso nell’ambito dell’eventuale successiva attività di valutazione dei fatti segnalati.
Laddove emergano elementi di non manifesta infondatezza del fatto, è compito del Responsabile inoltrare la segnalazione ai soggetti terzi competenti - anche per l’adozione dei provvedimenti conseguenti - ossia:
• al dirigente della struttura in cui si è verificato il fatto per l’acquisizione di elementi istruttori, solo laddove non vi siano ipotesi di reato;
• all’ufficio procedimenti disciplinari, per eventuali profili di responsabilità disciplinare;
• all’Autorità giudiziaria, alla Corte dei conti e all’ANAC, per i profili di rispettiva competenza;
• al Dipartimento della funzione pubblica.
Nel caso di trasmissione a soggetti interni all’amministrazione, dovrà essere inoltrato solo il contenuto della segnalazione, espungendo tutti i riferimenti dai quali sia possibile risalire all’identità del segnalante. Nel caso di trasmissione all’Autorità giudiziaria, alla Corte dei conti o al Dipartimento della funzione pubblica, la trasmissione dovrà avvenire avendo cura di evidenziare che si tratta di una segnalazione pervenuta da un soggetto cui l’ordinamento riconosce una tutela rafforzata della riservatezza ai sensi dell’art. 54-bis del d.lgs. 165/2001.
Per l’Orientamento Anac n. 130/2014, il responsabile della prevenzione e della corruzione, “oltre che curare la predisposizione di un’apposita sezione del Piano triennale in ordine alla gestione degli strumenti di tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti (c.d. whistleblower), è tenuto a svolgere l’attività istruttoria necessaria per accertare se le azioni discriminatorie subite dal segnalante siano riconducibili alle iniziative intraprese da quest’ultimo per denunciare presunte attività illecite del proprio datore di lavoro. Egli, altresì, ha il compito di segnalare al Dipartimento della funzione pubblica le eventuali azioni discriminatorie e di trasmettere alla Procura della Repubblica eventuali fatti penalmente rilevanti, nonché all’apposito ufficio dell’amministrazione per avviare un eventuale procedimento disciplinare”.
La Determinazione n. 6/2015 passa, quindi, in rassegna i principi generali in tema di procedura, essendo opportuno che, ai fini di un’efficace gestione delle segnalazioni, le amministrazioni si dotino di un sistema che si componga di una parte organizzativa e di una parte tecnologica, tra loro interconnesse.
Il sistema di gestione delle segnalazioni deve essere capace di:
• gestire le segnalazioni in modo trasparente attraverso un iter procedurale definito e comunicato all’esterno con termini certi per l’avvio e la conclusione dell’istruttoria;
– tutelare la riservatezza dell’identità del dipendente che effettua la segnalazione;
• tutelare il soggetto che gestisce le segnalazioni da pressioni e discriminazioni, dirette e indirette;
– tutelare la riservatezza del contenuto della segnalazione nonché l’identità di eventuali soggetti segnalati;
• consentire al segnalante, attraverso appositi strumenti informatici, di verificare lo stato di avanzamento dell’istruttoria.
L’amministrazione dovrà, quindi, contemplare le opportune cautele al fine di:
– identificare correttamente il segnalante acquisendone, oltre all’identità, anche la qualifica e il ruolo;
– separare i dati identificativi del segnalante dal contenuto della segnalazione, prevedendo l’adozione di codici sostitutivi dei dati identificativi, in modo che la segnalazione possa essere processata in modalità anonima e rendere possibile la successiva associazione della segnalazione con l’identità del segnalante nei soli casi in cui ciò sia strettamente necessario;
– non permettere di risalire all’identità del segnalante se non nell’eventuale procedimento disciplinare a carico del segnalato;
• mantenere riservato, per quanto possibile, anche in riferimento alle esigenze istruttorie, il contenuto della segnalazione - sottratta all’accesso ex art. 22 e seguenti della legge 241/1990 - durante l’intera fase di gestione della stessa.
Ai fini della tutela della riservatezza dell’identità del segnalante, “la gestione delle segnalazioni realizzata attraverso l’ausilio di procedure informatiche è largamente preferibile a modalità di acquisizione e gestione delle segnalazioni che comportino la presenza fisica del segnalante”. Naturalmente, il sistema informatico di supporto deve essere realizzato in maniera tale da garantire adeguate misure di sicurezza delle informazioni e rispettare, per i dati sensibili, la normativa in materia di protezione dei dati personali[15].
Occorre, pertanto, che le p.a. effettuino idonee scelte su:
– modalità di conservazione dei dati (fisico, logico, ibrido);
• politiche di tutela della riservatezza attraverso strumenti informatici (disaccoppiamento dei dati del segnalante rispetto alle informazioni relative alla segnalazione, crittografia dei dati e dei documenti allegati);
• politiche di accesso ai dati (funzionari abilitati all’accesso, amministratori del sistema informatico);
• politiche di sicurezza (ad es. modifica periodica delle password);
• tempo di conservazione (durata di conservazione di dati e documenti).
Particolare rilievo assume, infine, la problematica della tutela del whistleblower negli enti di diritto privato in controllo pubblico e negli enti pubblici economici.
Come ricordato, la legislazione preveda espressamente che sia approntata una specifica tutela per la segnalazione di fatti illeciti da parte dei «dipendenti pubblici» delle amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001. L’ANAC “ritiene, tuttavia, che l’applicazione delle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione di cui alla legge 190/2012 sia da estendere anche gli enti di diritto privato in controllo pubblico di livello nazionale e locale, nonché agli enti pubblici economici. Ciò anche in virtù di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 1, co. 60, della predetta legge, contenuta nel documento “Applicazione degli obblighi di prevenzione della corruzione previsti dalla legge 190/2012 alle società controllate e partecipate dalle pubbliche amministrazioni” adottato congiuntamente dall’Autorità e dal Ministero dell’Economia e delle Finanze”.
In mancanza di una specifica previsione normativa relativa alla tutela dei dipendenti che segnalano condotte illecite negli enti di diritto privato in controllo pubblico e negli enti pubblici economici, “l’Autorità ritiene opportuno che le amministrazioni controllanti e vigilanti promuovano da parte dei suddetti enti, eventualmente nell’ambito del Piano di prevenzione della corruzione, l’adozione di misure di tutela analoghe a quelle previste nelle presenti Linee guida (si vedano, a tal proposito, le Linee guida per l’attuazione della normativa in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza da parte delle società e degli enti di diritto privato controllati e partecipati dalle pubbliche amministrazioni e degli enti pubblici economici). Per quanto attiene, invece, alle società e agli enti di diritto privato partecipati da pubbliche amministrazioni, sulla base dell’orientamento recentemente espresso dall’Autorità nelle citate Linee guida, l’attuazione della normativa in materia di prevenzione della corruzione comporta per esse oneri minori rispetto a quelli imposti alle società in controllo pubblico. Esse sono sottoposte alla disciplina sulla trasparenza limitatamente all’attività di pubblico interesse eventualmente svolta. Considerata tuttavia la partecipazione delle amministrazioni pubbliche e tenuto conto che le società e gli enti predetti gestiscono risorse pubbliche, sarebbe opportuno che le amministrazioni partecipanti promuovano l’adozione di misure volte ad incoraggiare i dipendenti degli stessi enti a segnalare eventuali condotte illecite approntando forme di tutela della loro riservatezza. L’Autorità auspica comunque che il legislatore intervenga per colmare il vuoto normativo sopra evidenziato”.
Un’ultima notazione riguarda i collaboratori o consulenti, con qualsiasi tipologia di contratto o incarico e a qualsiasi titolo, i titolari di organi e di incarichi negli uffici di diretta collaborazione delle autorità politiche, i collaboratori a qualsiasi titolo di imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzano opere in favore dell’amministrazione. Tali tipologie di soggetti sono già prese in considerazione dell’art. 2, comma 3, del Codice di comportamento dei dipendenti pubblici (d.P.R. n. 62/2013), laddove è previsto che le amministrazioni debbano estendere ad essi, per quanto compatibili, gli obblighi di condotta che il Codice stabilisce per i pubblici dipendenti. A tale fine, le amministrazioni inseriscano negli atti di incarico o nei contratti di acquisizione delle collaborazioni, delle consulenze o dei servizi, apposite clausole di risoluzione o decadenza del rapporto nel caso di violazione degli obblighi derivanti dal Codice.
L’ANAC non può non rilevare come, “in considerazione del ruolo che questi soggetti rivestono all’interno delle amministrazioni, sia opportuno offrire loro una qualche forma di tutela della riservatezza qualora questi intendano esporsi in prima persona per segnalare fatti illeciti in occasione e/o a causa dello svolgimento delle mansioni lavorative. L’Autorità auspica quindi un intervento del legislatore volto ad estendere misure di tutela analoghe a quelle previste dall’art. 54-bis del d.lgs. n. 165/2001 anche alle menzionate categorie di soggetti, in costanza di rapporto di lavoro o collaborazione. A legislazione vigente, pertanto, l’Autorità può solo rilevare l’opportunità che le amministrazioni nei propri Piani di prevenzione della corruzione introducano per le categorie di soggetti sopra considerati misure di tutela della riservatezza analoghe a quelle previste per i dipendenti pubblici”[16].
4. Conclusioni
Sulla normativa italiana in tema di whistleblowing nel pubblico impiego incide ancora il pregiudizio culturale negativo, che assimila la segnalazione a un atto di delazione, una soffiata non sempre mossa da nobili intenti. Tuttavia, considerata la finalità di portare l’illegalità in superficie, la moralità dei motivi delle segnalazioni “appare irrilevante, è necessario solo che riguardino fatti circostanziati e di pubblico interesse. Allo stesso tempo, la regolamentazione prevista non ha compiti educativi, tesi a indurre nei singoli un senso civico altrimenti carente, ma serve a fare in modo che il concorso individuale coadiuvi il contrasto del malaffare”[17].
Non incoraggiante resta il dato, disponibile per l’anno scorso, delle p.a. che hanno varato in concreto adeguate procedure formalizzate per la raccolta delle segnalazioni (solo il 61%), mentre un segnale positivo emerge dalle non poche segnalazioni pervenute all’ANAC da quando il d.l. n. 90 del 2014 ha stabilito che l’Autorità possa ricevere notizie e segnalazioni di illeciti, anche nelle forme di cui all’articolo 54-bis del d.lgs. n. 165/2001.
Peculiare del caso italiano resta l’assenza di una disciplina organica di tutela del whistleblower per i dipendenti privati (un eccezione è quella degli interventi nel settore bancario)[18]. Così, nel privato le procedure di whistleblowing rimangono una rarità. Salvo “per le filiali italiane di multinazionali a matrice anglosassone, le altre società di rado si attrezzano in tal senso, dimostrando così scarsa attenzione al tema. Le ragioni sono da ricercare, da un lato, nella scarsa consapevolezza che prevedere tali procedure e monitorarle risponda in primis a un’esigenza prioritaria del top management e corrisponda all’interesse della società (costituendo un utile presidio, coerentemente alla normativa 231, a tutela della reputazione e della difesa della società stessa) e dall’altro, nella resistenza culturale propria dei dipendenti che temono di essere considerati “spie”, nel senso maggiormente dispregiativo del termine, nonché di subire possibili conseguenze negative sul rapporto di lavoro”. Tuttavia, “vista la natura delicatissima delle questioni che potrebbero essere denunciate, come ad esempio la cattiva gestione finanziaria, frodi ai danni o ad opera della società, false comunicazioni sociali, danni ambientali, casi di corruzione o concussione e le potenziali crisi aziendali derivanti dalla divulgazione di tali comportamenti, l’introduzione di precise procedure di “whistleblowing” è evidentemente un tema importante da inserire nell’agenda dei board delle società”[19].
Il 21 gennaio 2016 la Camera dei deputati ha approvato un disegno di legge di modifica della disciplina del whistleblowing, dal titolo Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato[20].
[1] In precedenza, il whistleblowing risultava menzionato soltanto nei Codici etici di aziende che avevano attivato lo strumento di prevenzione della responsabilità amministrativa degli enti ex d.lgs. n. 231/2001.
[2] Cfr. la Convenzione Ocse del 17 dicembre 1997, la Convenzione ONU di Merida del 2003 e le convenzioni di Strasburgo sulla corruzione del 1999.
[3] Più specificamente, l’espressione “whistleblowing” è traducibile in “making a disclosure in the public interest” ovvero “fare una rivelazione nel pubblico interesse”, con richiamo al soffiare nel fischietto tradizionalmente utilizzato dai poliziotti britannici, per segnalare una violazione delle regole della ordinata vita civile, ovvero dall’arbitro, che sanziona un fallo di gioco. Il tema evocato, all’interno della dimesnione del controllo sociale della cosa pubblica, è direttamente legato al substrato culturale interno ed esterno all’amministrazione, passando necessariamente per la presa di consapevolezza che il soggetto che denuncia una pratica scorretta non può essere considerato una “spia” ma un “difensore del principio di legalità” e come tale meritevole di considerazione e di adeguata tutela. Cfr. amplius G. Fraschini – N. Parisi – D. Rinoldi, Protezione delle “vedette civiche”: il ruolo del whistleblowing in Italia, in www.transparency.it.
[4] Cfr. l’art. 31, comma 1, del decreto n. 90 (convertito nella legge 11 agosto 2014, n. 114) nonché il precedente art. 19, comma 5, che ulteriormente precisa che l’ANAC “riceve notizie e segnalazioni di illeciti, anche nelle forme di cui all’art. 54-bis del decreto legislativo 30 marzo 2011, n. 165”, oltrea a ricevere “notizie e segnalazioni da ciascun avvocato dello Stato il quale, venga a conoscenza di violazioni di disposizioni di legge o di regolamento o di altre anomalie o irregolarità” relativamente ai contratti che rientrano nella disciplina del Codice dei contratti pubblici.
[5] Così recita l’Orientamento Anac n. 73/2014: “l’art. 54 bis del d.lgs. n. 165/2001 si applica a tutti i pubblici dipendenti – ivi compresi quelli assunti con un contratto a tempo determinato – che segnalano condotte illecite di cui siano venuti a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro”. Cfr. anche l’Orientamento Anac n.74/2014 laddove precisa che il segretario comunale – soggetto che la lstessa egge 190/2012 individua, di norma, come responsabile della prevenzione della corruzione negli enti locali - gode della tutela di cui all’art. 54 -bis del d.lgs. n. 165/2001 e, ove sia venuto a conoscenza di condotte illecite in ragione del rapporto di lavoro, può effettuare la segnalazione anche al Sindaco o al Presidente della Provincia, nelle forme e con gli accorgimenti che ciascuna amministrazione è tenuta a prevedere nel proprio Piano triennale di prevenzione della corruzione.
[6] Orientamento Anac n. 42/2014.
[7] È stato al riguardo osservato che il nuovo istituto del whistleblowing presupporre la facoltà e non l’obbligo di denuncia dell’illecito nei confronti dell’amministrazione, altrimenti “sarebbe privo di senso, perché non avrebbe alcun senso introdurre una facoltà di comportamento dove già esiste un obbligo di quel comportamento; ad anzi, paradossalmente, esporrebbe ad un procedimento disciplinare il dipendente che indirizzi la propria denuncia all’ANAC o alla Corte dei conti anziché alla propria amministrazione” (S. Giacchetti, La difficile convivenza tra Agenzie fiscali, equità fiscale e buon andamento della pubblica amministrazione, in www.lexitalia.it).
[8] B. G. Mattarella, La prevenzione della corruzione in Italia, in Giornale di dir. amm., 2013, 2, p. 133. L’A. aggiunge che “il legislatore sembra ritenere probabile che chi è a conoscenza di fatti illeciti affronti a cuor leggero i rischi e i sacrifici personali, che inevitabilmente una denuncia comporta, senza la prospettiva di un compenso”. Cfr. anche V. Azzollini, Perché l’Italia non è un paese per whistleblower, in La voce, 24 marzo 2015: “la tutela da licenziamento e da altre forme di discriminazione non basta a promuovere le segnalazioni: se si considerano i tempi della giustizia italiana, non vi è certezza che il denunciante non debba comunque sopportare costi “professionali”. Se l’onestà non paga, serve “aumentarne il rendimento per legge”, con una ricompensa tale da renderla conveniente. I risultati ottenuti negli Stati Uniti lo dimostrano: le somme rivenienti da “soffiate” consentono di dare a chi segnala premi che oscillano tra il 15 e il 30 per cento di quanto recuperato o dell’ammontare dei danni evitati. Il riconoscimento di una ricompensa, peraltro, conviene anche a chi la corrisponde perché il rischio che l’illecito venga “spifferato” può operare come deterrente”.
[9] Cfr. F. Ferraro - S. Gambacurta, Anticorruzione. Commento alla riforma, Rimini, 2013, p. 300.
[10] R. Cantone, La tutela del whistleblower: l’articolo 54-bis del d.lgs. n. 165/2001, in B.G. Mattarella - M. Pelissero (a cura di), La legge anticorruzione, Torino, 2013, p. 257.
[11] All’interno del PNA, l’obiettivo strategico Aumentare la capacità di scoprire casi di corruzione viene declinato in alcune misure attuative relative al whistlebllowing: 1) attuare un’azione di sensibilizzazione attraverso atti di indirizzo e diffusione del valore positivo del whistleblower; 2) diffondere buone pratiche in materia di tutela del dipendente che effettua segnalazioni di illecito mediante seminari o via web, anche in raccordo con O.N.G. che hanno sperimentato esperienze positive; 3) attuare il monitoraggio delle segnalazioni di discriminazione nei confronti del whistleblower, al fine di valutare interventi di azione.
[12] Disposizione, che – si ricorda - ha trasferito all’ANAC le funzioni, specificate all’art. 1, comma 4, lettere a- c, della legge 190/2012, prima in capo al Dipartimento della funzione pubblica, tra cui quella di predisporre il Piano nazionale anticorruzione. Nella Determinazione in commento, inoltre, l’ANAC, tenuto conto dello svolgimento delle funzioni di indirizzo e vigilanza sull’adozione da parte delle amministrazioni di effettive misure di tutela del dipendente pubblico segnalante, “ritiene opportuno che il Dipartimento della funzione pubblica, allorché riceva segnalazioni di azioni discriminatorie verso un dipendente che abbia rilevato un illecito, ne informi periodicamente l’Autorità”.
[13] Cfr. anche l’Orientamento Anac n. 40/2014.
[14] La Determinazione soggiunge che “al fine di rafforzare le misure a tutela della riservatezza dell’identità del segnalante, è opportuno che le amministrazioni introducano nei Codici di comportamento, adottati ai sensi dell’art. 54, co. 5, del d.lgs. 165/2001, forme di responsabilità specifica sia in capo al Responsabile della prevenzione della corruzione sia nei confronti dei soggetti che gestiscono le segnalazioni e che fanno parte, per esigenze di tutela del segnalante, di un gruppo ristretto a ciò dedicato. Si rammenta, comunque, che ai sensi dell’art. 1, co. 14, della legge 190/2012 la violazione da parte di dipendenti dell’amministrazione delle misure di prevenzione della corruzione previste nel Piano di prevenzione della corruzione, ivi compresa la tutela del dipendente che segnala condotte illecite ai sensi dell’art. 54-bis, è sanzionabile sotto il profilo disciplinare”.
[15] La necessità di gestire al meglio la base dati delle segnalazioni è importante anche nell’ottica di un’analisi sistematica che vada oltre le informazioni inerenti il singolo procedimento, per raccogliere evidenze (ad esempio sulle tipologie di violazioni) dalle quali desumere elementi per l’identificazione delle aree critiche dell’amministrazione, sulle quali intervenire in termini di miglioramento della qualità e dell’efficacia del sistema di prevenzione della corruzione.
[16] In un passaggio della Determinazione in esame, l’ANAC afferma anche che “l’estensione a dette categorie di soggetti delle tutele previste dall’art. 54-bis non implica l’estensione agli stessi anche delle forme di tutela contro le discriminazioni che il Dipartimento della funzione pubblica assicura ai pubblici dipendenti”.
[17] V. Azzollini, Perché l’Italia non è un paese per whistleblower, op. cit..
[18] Il 21 luglio 2015 la Banca d’Italia ha aggiornato le “Disposizioni di vigilanza per le banche” - Circolare n. 285 del 17 dicembre 2013, introducendo le indicazioni in materia di whistleblowing come previsto dal d.lgs n.72 del 12 maggio 2015 di attuazione della direttiva 2013/36/Ce, che ha introdotto il nuovo articolo 52 -bis del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia). Il citato art. 52 –bis prescrive alle banche e alle relative capogruppo di adottare “procedure specifiche per la segnalazione al proprio interno da parte del personale di atti o fatti che possano costituire una violazione delle norme disciplinanti l’attività bancaria”.
[19] L. Capone, L’Italia è in buona compagnia nel trascurare l’importanza del “whistleblowing”, in www.dirito24ore.ilsole24ore.com; cfr. anche F. Di Pretoro - G. Fraschini, Lo strumento del “whistleblowing” all’interno del contesto aziendale, in Il Sole 24 ore, novembre -dicembre 2011, n. 11/12, p. 14.
[20] Si riporta il testo dei due articoli del ddl S2208 trasmesso al Senato dopo l’approvazione della Camera: Art. 1. (Modifica dell’articolo 54-bis del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, in materia di tutela del dipendente o collaboratore che segnala illeciti): 1. L’articolo 54-bis del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, è sostituito dal seguente: «Art. 54-bis. - (Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti). -- 1. Il pubblico dipendente che, nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione, in buona fede segnala al responsabile della prevenzione della corruzione di cui all’articolo 1, comma 7, della legge 6 novembre 2012, n. 190, ovvero all’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), o denuncia all’autorità giudiziaria ordinaria o a quella contabile, condotte illecite di cui è venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito, o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro determinata dalla segnalazione. L’adozione di misure ritenute ritorsive, di cui al primo periodo, nei confronti del segnalante è comunicata in ogni caso all’ANAC dall’interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell’amministrazione nella quale le stesse sono state poste in essere. L’ANAC informa il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri o gli altri organismi di garanzia o di disciplina per le attività e gli eventuali provvedimenti di competenza. 2. È in buona fede il dipendente pubblico che effettua una segnalazione circostanziata nella ragionevole convinzione, fondata su elementi di fatto, che la condotta illecita segnalata si sia verificata. La buona fede è comunque esclusa qualora il segnalante abbia agito con colpa grave. Ai fini del presente articolo, per dipendente pubblico si intende il dipendente delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, ivi compreso il dipendente di cui all’articolo 3, il dipendente di un ente pubblico economico ovvero il dipendente di un ente di diritto privato sottoposto a controllo pubblico ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile. La disciplina di cui al presente articolo si applica anche ai collaboratori o consulenti, con qualsiasi tipologia di contratto o di incarico, nonché ai lavoratori e ai collaboratori a qualsiasi titolo di imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzano opere in favore dell’amministrazione pubblica. 3. L’identità del segnalante non può essere rivelata. Nell’ambito del procedimento penale, l’identità del segnalante è coperta dal segreto nei modi e nei limiti previsti dall’articolo 329 del codice di procedura penale. Nell’ambito del procedimento dinanzi alla Corte dei conti, l’identità del segnalante non può essere rivelata fino alla chiusura della fase istruttoria. Nell’ambito del procedimento disciplinare l’identità del segnalante non può essere rivelata, ove la contestazione dell’addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione, anche se conseguenti alla stessa. Qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione e la conoscenza dell’identità del segnalante sia indispensabile per la difesa dell’incolpato, la segnalazione sarà utilizzabile ai fini del procedimento disciplinare solo in presenza di consenso del segnalante alla rivelazione della sua identità. 4. La segnalazione è sottratta all’accesso previsto dagli articoli 22 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni. 5. L’ANAC, sentito il Garante per la protezione dei dati personali, adotta apposite linee guida relative alle procedure per la presentazione e la gestione delle segnalazioni. Le linee guida prevedono l’utilizzo di modalità anche informatiche e promuovono il ricorso a strumenti di crittografia per garantire la riservatezza dell’identità del segnalante e per il contenuto delle segnalazioni e della relativa documentazione. 6. Qualora venga accertata, nell’ambito dell’istruttoria condotta dall’ANAC, l’adozione di misure discriminatorie da parte dell’ente, fermi restando gli altri profili di responsabilità, l’ANAC applica al responsabile che ha adottato tale misura una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 30.000 euro. Qualora venga accertata l’assenza di procedure per l’inoltro e la gestione delle segnalazioni ovvero l’adozione di procedure non conformi a quelle di cui al comma 5, l’ANAC applica al responsabile la sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 20.000 euro. 7. Le tutele di cui al presente articolo non sono garantite nei casi in cui sia accertata, anche con sentenza di primo grado, la responsabilità penale del segnalante per i reati di calunnia o diffamazione o comunque per reati commessi con la denuncia di cui al comma 1 ovvero la sua responsabilità civile, per lo stesso titolo, nei casi di dolo o colpa grave. 8. Qualora al termine del procedimento penale, civile o contabile ovvero all’esito dell’attività di accertamento dell’ANAC risulti l’infondatezza della segnalazione e che la stessa non è stata effettuata in buona fede, il segnalante è sottoposto a procedimento disciplinare dall’ente di appartenenza, al termine del quale, sulla base di quanto stabilito dai contratti collettivi, può essere irrogata la misura sanzionatoria anche del licenziamento senza preavviso». Art. 2. (Tutela del dipendente o collaboratore che segnala illeciti nel settore privato) 1. All’articolo 6 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, dopo il comma 2 sono inseriti i seguenti: «2-bis. I modelli di cui alla lettera a) del comma 1 prevedono: a) a carico delle persone indicate nell’articolo 5, comma 1, lettere a) e b), nonché di coloro che a qualsiasi titolo collaborano con l’ente, l’obbligo di presentare, a tutela dell’integrità dell’ente, segnalazioni circostanziate di condotte illecite, rilevanti ai sensi del presente decreto, che in buona fede, sulla base della ragionevole convinzione fondata su elementi di fatto, ritengano essersi verificate, o di violazioni del modello di organizzazione e gestione dell’ente di cui siano venuti a conoscenza in ragione delle funzioni svolte; b) canali alternativi di segnalazione, di cui almeno uno idoneo a garantire, anche con modalità informatiche, la riservatezza dell’identità del segnalante; c) misure idonee a tutelare l’identità del segnalante e a mantenere la riservatezza dell’informazione in ogni contesto successivo alla segnalazione, nei limiti in cui l’anonimato e la riservatezza siano opponibili per legge; d) il divieto di atti di ritorsione o discriminatori, diretti o indiretti, nei confronti del segnalante per motivi collegati, direttamente o indirettamente, alla segnalazione, fatto salvo il diritto degli aventi causa di tutelarsi qualora siano accertate in capo al segnalante responsabilità di natura penale o civile legate alla falsità della dichiarazione; e) nel sistema disciplinare adottato ai sensi del comma 2, lettera e), sanzioni nei confronti di chi viola gli obblighi di riservatezza o compie atti di ritorsione o discriminatori nei confronti del segnalante. 2-ter. L’adozione di misure discriminatorie nei confronti dei soggetti che effettuano le segnalazioni di cui al comma 2-bis può essere denunciata all’Ispettorato nazionale del lavoro, per i provvedimenti di propria competenza, oltre che dal segnalante, anche dall’organizzazione sindacale indicata dal medesimo. 2-quater. Il licenziamento ritorsivo o discriminatorio del soggetto segnalante è nullo. Sono altresì nulli il mutamento di mansioni ai sensi dell’articolo 2103 del codice civile, nonché qualsiasi altra misura ritorsiva o discriminatoria adottata nei confronti del segnalante. È onere del datore di lavoro, in caso di controversie legate all’irrogazione di sanzioni disciplinari, o a demansionamenti, licenziamenti, trasferimenti, o sottoposizione del segnalante ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro, successivi alla presentazione della segnalazione, dimostrare che tali misure sono fondate su ragioni estranee alla segnalazione stessa».